Ebrei assimilati.
In Germania vivevano, prima dell'ascesa del regime nazista, circa 566.000 persone classificate come appartenenti alla razza ebraica (su una popolazione totale di oltre 70 milioni di persone). Di questi, soltanto 75.000 lasciarono la Germania nel primo semestre del 1933, mentre 50.000 se ne andarono tra il 1 luglio 1933 e il 15 settembre 1935. Queste cifre, riportate dallo storico Léon Poliakov (1955), p. 33, possono apparire alquanto enigmatiche. In primo luogo, l'insistenza e la violenza della propaganda antisemita nazista indurrebbe a pensare che il numero degli Ebrei tedeschi fosse molto più elevato di quello effettivo (così elevato da costituire realmente una minaccia per la "comunità nazionale" tedesca). In secondo luogo, ci si aspetterebbe che cittadini sottoposti fin dall'aprile 1933 a vere e proprie persecuzioni, avessero cercato di fuggire disordinatamente e in massa dalla Germania nazista. Se ciò non accadde (se ne andarono principalmente gli uomini politici, i giornalisti, gli intellettuali che avvertirono già prima del 1933 un pericolo imminente), dipese dalle peculiari caratteristiche sociologiche degli Ebrei tedeschi. Di questi, la grande maggioranza era costituita da Ebrei "assimilati", che avevano completamente dimenticato la loro origine culturale e si erano perfettamente integrati nella società tedesca; in molti casi si erano convertiti al Cristianesimo e, soprattutto per quanto riguarda le classi più agiate, spesso si trattava di ferventi nazionalisti tedeschi. Ancora Léon Poliakov, nell'opera citata, riferisce il caso di un Ebreo del Württemberg, il quale nell'agosto del 1933 si uccise, lasciando la seguente lettera:
«Amici, questo è il mio ultimo addio! Un Ebreo tedesco non può accettare di vivere, quando sa che il movimento [il movimento nazista] dal quale la Germania nazionale attende la salvezza lo considera un traditore. Me ne vado senz'odio. Non ho che un solo, ardente desiderio: il ritorno della ragione. Non potendo esercitare alcuna attività che mi convenga, tento con il mio suicidio di scuotere gli amici cristiani. Questo vi dimostri ciò che provano gli Ebrei tedeschi. Come avrei preferito dare la vita per la Patria! Non piangete; cercate piuttosto di far capire e di aiutare la verità a farsi strada. Solo così mi onorerete.
Il vostro Fritz»
La lettera rivela una contraddizione piuttosto diffusa tra gli Ebrei tedeschi, spesso attratti dal revanscismo e dall'esasperato nazionalismo dei nazisti, ma identificati al tempo stesso con la causa occulta del "decadimento morale" della Germania. La misura dell'ingenuità di questo atto e di queste parole, tuttavia, è data dalla cinica reazione che essi suscitarono da parte di un giornale locale del Württemberg, che titolò: «Fritz Rosenfelder è ragionevole e s'impicca! Ne siamo felici, e non vediamo nessun inconveniente a che i suoi confratelli ci dicano addio nello stesso modo».
Le parole dell'ebreo suicida evidenziano una scarsa o inesistente - tipica proprio degli Ebrei assimilati - consapevolezza del pericolo mortale proveniente dal nuovo regime. Come ha scritto Joseph Roth nel 1927,
[gli Ebrei occidentali provenienti dall'Europa orientale] «Rinunciarono a se stessi. Si smarrirono. [...] Il disprezzo gli rimase incollato addosso, ma in passato erano stati presi a sassate. Scesero a compromessi. Cambiarono il loro modo di vestire, la loro barba, la loro capigliatura, il loro servizio divino, il loro Sabato, il governo della loro casa - e se pure essi continuarono ad attenersi alle antiche costumanze, la tradizione si staccò da loro. Diventarono semplici piccolo-borghesi. Le preoccupazioni dei piccolo-borghesi diventarono le loro preoccupazioni. Pagarono le tasse e ricevettero notifiche, furono registrati e si riconobbero in una "nazionalità", in una "cittadinanza" che venne loro "conferita" dopo mille angherie, usarono i tram, gli ascensori e tutte le benedizioni della civiltà. Ebbero persino una "patria". [...] I nipoti si sono occidentalizzati. Hanno bisogno dell'organo per disporsi alla preghiera, il loro Dio è una specie di astratta potenza della natura, la loro preghiera una formula. [...] Sono sottotenenti della riserva e il loro dio è il superiore di un cappellano di Corte ed è proprio quel Dio per grazia del quale regnano i re» [Roth (1985), pp. 21-22 e 29-30].
Per costoro, l'antisemitismo nazista fu forse più amaro da sopportare che per gli Ebrei tradizionalisti. Mentre i secondi conservavano, infatti, una forte identità culturale ebraica, i primi non si sentivano affatto Ebrei. Le leggi di Norimberga, definendo come appartenenti alla razza ebraica tutti coloro che discendevano da Ebrei sino alla quarta generazione, dissolsero improvvisamente ogni illusione di assimilazione, esponendo gli impreparati Ebrei assimilati ad una distruzione di proporzioni incalcolabili.
Ebrei tradizionalisti.
Sebbene apparentemente simile, l'atteggiamento degli Ebrei tradizionalisti di fronte alle persecuzioni e allo sterminio ebbe caratteristiche affatto diverse. Soprattutto in Polonia, dove era concentrata la maggiore quantità relativa di Ebrei europei, laddove scelsero di morire in silenzio e rassegnazione, gli Ebrei tradizionalisti lo fecero nel nome di Dio, Padre terribile e misericordioso, Totalmente-Altro il cui pensiero e la cui volontà sono imperscrutabili. In altri termini, se è vero che anche gli Ebrei tradizionalisti subirono la feroce persecuzione antisemita con una rassegnazione quasi incomprensibile, ciò non significa che quest'ultima fosse in alcun modo simile alla stupita, attonita rassegnazione degli Ebrei tedeschi assimilati: nel primo caso si trattava di uno stupore ottuso per la repentina perdita di privilegi faticosamente, duramente acquisiti; nel secondo caso, si trattava della millenaria, biblica fiducia nell'onnipotenza divina. Nel diario di un giovane ebreo olandese [Flinker (1993), pp.71-73], morto ad Auschwitz nel 1944, si legge:
«[...] improvvisamente mi sono venute in mente le parole che Dio disse ad Abramo: "Le iniquità degli amoriti non sono ancora giunte a compimento". Ho pensato che forse questo vale anche per noi. [...] Quando crescono le difficoltà, nel mio cuore cresce anche la fiducia che la salvezza è vicina [...]. Mio padre mi ha detto di avere incontrato spesso uomini ai quali sono stati portati via mogli e figli, e che ora sono soli; oppure, all'opposto, donne alle quali sono stati strappati i mariti. Spesso mi sono detto che se io mi trovassi in una posizione del genere mi suiciderei oppure mi consegnerei ai tedeschi, in modo da ritrovarmi assieme alla mia famiglia. Ma sicuramente il Signore sa che cosa sta facendo.»
Resistenza ebraica.
Un'ultima considerazione - tutt'altro che conclusiva - su questo problema, investe il problema della resistenza ebraica. Mentre nelle zone d'Europa dove meno forte era la presenza del tradizionalismo non si verificò alcuna forma organizzata di resistenza armata alle persecuzioni antisemite (soprattutto in Occidente gli ebrei che aderirono alla resistenza lo fecero a titolo personale, non in qualità di Ebrei), una vera e propria resistenza ebraica si verificò soltanto in Polonia, laddove era forse maggiore il radicamento della tradizione. Nei ghetti di Cracovia, Bialystok e Varsavia si svilupparono focolai di lotta armata, animati soprattutto da giovani appartenenti al movimento sionista e alle organizzazioni socialiste ebraiche. A Cracovia, capitale del Governatorato generale, tra la fine del 1942 e il febbraio del 1943 il movimento sionista organizzò diversi attentati contro le truppe tedesche, senza però riuscire a dar vita ad una autentica organizzazione combattente di massa. A Bialystok, i movimenti della sinistra ebraica costituirono nel febbraio del 1942 un comitato antifascista, che nel 1943, tra febbraio ed agosto, riuscì ad impegnare i tedeschi in piccoli scontri armati. A Varsavia, tra il 19 gennaio e il 10 maggio 1943, l'Organizzazione Ebraica di Combattimento fu protagonista di una disperata insurrezione del ghetto. Lo scopo dei combattenti, come osserva Léon Poliakov, non era quello di salvarsi la vita (sapevano bene che la sproporzione delle forze in campo rendeva disperata la loro lotta), ma di «salvare la loro dignità umana» (Poliakov (1955), p. 312), affermando il principio elementare (benché astratto, nelle condizioni di fatto) del proprio diritto all'autodifesa. Sebbene isolati (le forze non ebraiche della resistenza polacca non intervenirono in aiuto degli insorti) e male armati, i combattenti Ebrei riuscirono a tenere in scacco l'esercito tedesco, combattendo strada per strada. La battaglia finale, malgrado l'indubbia superiorità numerica e tecnica dell'esercito tedesco, durò quasi un mese, a testimonianza del fatto che, forse, una più tempestiva e più determinata capacità di reazione da parte degli Ebrei avrebbe potuto quanto meno ridurre la portata delle persecuzioni naziste. Soltanto incendiando e radendo al suolo il ghetto, i tedeschi riuscirono a reprimere la rivolta ebraica.
Evidentemente, tra i fenomeni di resistenza e il tradizionalismo ebraico non esiste una correlazione diretta. Come si è detto, l'atteggiamento dei tradizionalisti fu, per ragioni diverse, del tutto simile a quello degli assimilati: docilmente si lasciarono umiliare, torurare, assassinare, deportare.
Ma il fatto che la resistenza ebraica si sia sviluppata soltanto nei Paesi dell'Europa orientale nei quali più forti erano la presenza e la vitalità della cultura ebraica tradizionale non è casuale. Certamente la resistenza trasse alimento anche da posizioni ideologiche che con l'ebraismo non avevano nulla a che fare, e che anzi erano avversate dai tradizionalisti (ciò vale tanto per il sionismo quanto per il socialismo); ma è innegabile il fatto che, laddove i tradizionalisti erano più presenti, non solo le persecuzioni naziste furono più feroci e sistematiche, ma fu più facile agli Ebrei riconoscersi come tali, prendere atto dell'incancellabilità della propria appartenenza culturale, non solo agli occhi dei persecutori, ma anche ai propri.
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